Si moltiplicano i software di voiceover on line e fanno grandi promesse: l’inizio della fine?
Nel mio feed di instagram si affacciano sempre più spesso le pubblicità di software che promettono di restituire voci capaci di interpretare naturalmente qualsiasi colore con una naturalezza “umana”. Il tutto con un meccanismo facile facile e in qualsiasi lingua: mandi un testo, paghi una fee decisamente abbordabile e scarichi l’audio, pronto per essere post prodotto in un video, o un radio, o qualsiasi altro oggetto multimediale. Una rivoluzione? Certamente è un tema importante che merita una riflessione. La mia parte da un presupposto nel quale credo moltissimo: la tecnologia è amica dell’espressione umana, della realizzazione dei nostri sogni, delle nostre ambizioni e tutto ciò che facciamo per emulare le modalità dell’espressione umana non può essere altro che un omaggio alla nostra creatività, alla primazìa (non uso appositamente il termine “supremazia”) del pensiero. Un software ricrea la capacità di un voice over talent? Vuol dire che il riferimento sarà sempre e solo un umano. Naturalmente per coloro che sono abituati a vedere il bicchiere mezzo vuoto, questa svolta tecnologica rappresenta un pericolo per il già asfittico mercato del voiceover, almeno in Italia. Ma ne siamo proprio sicuri?
Il rapporto tra tecnologia e contributo umano. Un tema da sempre dibattuto.
Da sempre parliamo di come la tecnologia possa soppiantare la capacità umana. Ma qui è diverso. Non si tratta di produrre beni o servizi, per i quali una macchina può fare meglio e più velocemente: qui si tratta di una delle funzioni basilari di un essere umano; usare la propria voce per comunicare.
Entriamo in un tema delicato e dibattuto: il presunto appiattimento delle sfumature della nostra comunicazione a causa delle semplificazioni degli algoritmi linguistici dei grandi software (Google in testa).
“Informare” una voce sintetica è infatti il nodo cruciale: minore il livello di sfumature linguistiche che noi forniremo all’algoritmo, altrettanto limitato sarà il grado di significatività della sua risposta.
La catena della comunicazione pubblicitaria è una delle più sofisticate esistenti, perché si basa sulla sintesi estrema di percorsi logici, contenutistici e infine strategici che si riflettono in messaggi brevi e solo apparentemente banali. Essa è composta dal cliente, che determina i propri obiettivi, dagli strategist, che li elaborano in percorsi logici per raggiungere il pubblico di riferimento, dal copywriter, che trasforma in espressione linguistica il frutto di tutto questo lavoro. Infine gli esecutori, noi voiceover talent italiani, che abbiamo il compito di rendere nella pratica l’effetto ricercato, attraverso l’emozione. Banalizzare il risultato mettendolo in mano a un software che è portato a dare risposte limitate nelle sfumature o comunque non rispondenti alla chimica neuronale del nostro cervello, è comunque diverso. Punto.
Alzare l’asticella: il voice over è un lavoro per superspecialisti
In Italia siamo tutti suonatori, cuochi e cantanti, questo è il pensiero comune e anche il lavoro del doppiatore genera un fascino esteso nei confronti di molte persone che si avvicinano al lavoro con l’idea che una bella voce sia quanto basti per intraprendere la carriera di voice talent italiano. Su questo ho qualcosa da dire.
Posto che chiunque venga scritturato è nel pieno diritto di guadagnare del denaro dichiarandosi “doppiatore”, arrivare preparati al mestiere e in grado di affrontare qualsiasi tipo di performance è tutta un’altra cosa. Essere in grado di offrire risposte per ogni necessità, mostrare la necessaria sensibilità per toccare alcune e non altre corde delle emozioni, è qualcosa che si impara in anni e anni di scuola e di gavetta.
Ben venga, nell’era del “siamo tutti protagonisti”, un sano e proficuo senso del dovere che genera libertà nella misura in cui al diritto si accede tramite il rispetto, la fatica e lo studio.
Sono stato tirato su in questo modo e confesso che, mentre vi scrivo, ho un po’ paura di essere tacciato di vecchio reazionario.
Coltivare sane ambizioni, porsi traguardi, aspirare ad obiettivi è un istinto primordiale dell’uomo. Il falso mito che tutti abbiamo diritto alla realizzazione dei nostri sogni, allo schioccar di dita, va assolutamente ridimensionato.
Mi vengono in mente i pomeriggi passati ad assistere in studio di doppiaggio, in attesa di un brusio per il quale richiedere il mio supporto. Ero convinto di saperci fare, eppure dovevo attendere, dovevo osservare, dovevo imparare. Naturalmente mi sembrava una profonda ingiustizia: ero convinto di essere il migliore. Eppure questa esperienza ha forgiato il mio carattere professionale, la capacità di ascoltare e alla fine anche i colori della voce che mi hanno fatto di ventare un voice over artist italiano.
Nella scuola italiana il rapporto con il microfono non è appannaggio esclusivo dei sound engeneer
Un altro aspetto niente affatto banale è il rapporto con il microfono, dal momento che la recitazione su palcoscenico è completamente differente. Un altro aspetto che denota la professionalità di una categoria rispetto all’improvvisazione di altri. Il sound Engeneer da noi è un maestro, e questo è indiscutibile. Ma la performance al microfono, i colori e i toni, vengono gestiti direttamente in gola dal doppiatore. che ha maturato nel tempo una dimestichezza con lo strumento, che gli permette di considerarlo niente di meno che un’estensione del proprio corpo. “Pensare il microfono” diventa quindi un carattere distintivo dello speaker della pubblicità. Un ulteriore aspetto, se mi permettete, che ci distingue da qualsiasi algoritmo: questi non può “ascoltare” se stesso se non dicendosi: “bravo, sei proprio perfetto”, mentre noi professionisti della voce – diciamocelo – ogni take registrato ne vorremmo fare un altro, e un altro, e un’altro ancora, convinti di poterci migliorare sempre.
Ecco, non so se con precisione ma certamente con passione, ho provato a salutare con un filo di ironia e di bonomia la nascita della macchina digitale che propone di raccontarci le emozioni con la voce. E, citando il film “Her” con un immenso Joaquin Phoenix, forse un giorno saremo in grado di provare dei sentimenti per qualcuno di cui ascoltiamo la voce che ci sussurra cose che vorremmo sentire. Ma alla fine il cuore che batte, la pelle che rabbrividisce, il sospiro che ci rivela le nostre fragilità, quelle poche parole dette con la voce spezzata e nello stesso tempo viva, quelle, sappiamo riconoscerle e provengono da un voiceover talent professionista. Sono le cose per le quali vale la pena vivere.